Fu soprattutto verso la fine degli anni ‘70 - inizio anni ‘80, che il legislatore si rese conto che la gamma dei reati consumati dalle organizzazioni mafiose era caratterizzata da una particolare produttività economica: le estorsioni applicate sistematicamente al ceto imprenditoriale; la conversione delle attività contrabbandiere nelle ben più lucrose attività relative alla produzione, al traffico ed alla distribuzione della droga; l'acquisizione di appalti, di pubblici contributi e finanziamenti attraverso l'intimidazione e la corruzione delle istituzioni; la collusione con potentati politici, ecc. consentivano di realizzare notevoli profitti e di accumulare ricchezze tali da costituire - in definitiva - un pericoloso presupposto per l'ulteriore potenziamento ed una più preoccupante efficienza delle organizzazioni stesse.
Sull'onda di feroci contrasti e di una vera e propria mattanza fra cosche rivali, nonché di una serie impressionante di "omicidi eccellenti", consumati indifferentemente in danno di uomini politici, magistrati, funzionari pubblici ed appartenenti alle forze dell'ordine, il legislatore si rese ormai conto dell'indilazionabile necessità di adottare provvedimenti particolarmente radicali.
Caddero infatti in quegli anni, sotto i colpi della mafia, il capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano; il giudice istruttore Cesare Terranova; il presidente della regione siciliana Piersanti Mattarella; il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, comandante della compagnia di Monreale; Gaetano Costa, procuratore capo della Repubblica di Palermo; l'onorevole Pio La Torre, membro della Commissione antimafia, che - fra l'altro - stava lavorando appunto alla redazione della citata legge innovativa.
Ma l'episodio eclatante che confermò in tutta la sua gravità l'intollerabile sfida portata dalle organizzazioni mafiose al potere dello Stato, fu l'uccisione del Prefetto di Palermo, il Generale dell'Arma dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, avvenuta il 3 settembre 1982.
Ebbene, tre giorni dopo - il 6 settembre - fu istituito l'Alto Commissario per il coordinamento della lotta alla criminalità organizzata
(1) , dotato di poteri in parte delegati dal Ministro dell'interno - soprattutto in tema di coordinamento dell'attività delle forze di polizia e degli organi amministrativi - ed in parte del tutto propri - con riferimento specifico al controllo delle infiltrazioni mafiose nel tessuto produttivo e nel sistema finanziario nazionale.
Dieci giorni dopo, il 13 settembre, fu approvata la legge Rognoni- La Torre
(2) - dal nome del Ministro dell'interno dell'epoca, che riprese i lavori dell'onorevole ucciso - la quale si basò invero su pochi ma fondamentali concetti, e precisamente:
- fu definita la fattispecie di associazione mafiosa, in maniera che potesse esser quindi individuato il destinatario della normativa antimafia, e cioè l'"indiziato" di appartenenza all'associazione stessa;
- fu attribuita tutta una serie di poteri e facoltà al questore ed al procuratore della Repubblica, in tema di indagini economico - patrimoniali, al fine di poter ricostruire l'effettivo patrimonio del mafioso e confrontarlo con la sua redditività ufficiale;
- fu introdotta, accanto alla misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale, una misura di prevenzione a carattere patrimoniale, consistente dapprima nel sequestro e successivamente nella confisca di quella parte del patrimonio che, sulla base di sufficienti indizi, potesse essere considerata il frutto della pregressa attività delinquenziale del soggetto.
In definitiva, l'intento del legislatore fu dunque quello di colpire il soggetto nel suo patrimonio, vanificando - in una sola volta -, con criterio di sintesi, stringente e conclusivo, l'accumulo di ricchezza riconducibile all'illecita produttività del suo status di mafioso.
Vediamo allora di esaminare brevemente questi tre aspetti fondamentali della legge del 1982.
La tipizzazione legale dell'associazione mafiosa fu adottata introducendo un nuovo articolo - il 416-bis - nel codice penale, il quale, al terzo comma, stabilisce che "l'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che de deriva per..."; per fare che cosa? Gli scopi possono essere distinti in due categorie:
- innanzitutto, "per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti o di servizi pubblici";
- ovvero, "per commettere delitti o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri".
Abbiamo volutamente separato le finalità previste dalla citata disposizione per sottolineare che - a ben guardare - i fini perseguiti dall'associazione di tipo mafioso potrebbero dunque anche non essere oggettivamente illeciti: ed infatti, quelli indicati nella prima categoria, e cioè l'acquisizione della gestione o del controllo di una determinata attività economica, l'ottenimento di una autorizzazione, l'assegnazione di un appalto, ecc. ben possono rientrare tra le finalità di una qualunque normalissima impresa.
Senonché, l'elemento che tinge di antigiuridicità lo scopo è costituito dalla modalità attraverso la quale lo scopo stesso viene perseguito e cioè dalla forza d'intimidazione. Il fine lecito diventa contro - legge perché perseguito attraverso l'intimidazione.
L'elemento costitutivo, centrale e decisivo, dell'associazione di tipo mafioso è pertanto rappresentato dalla forza d'intimidazione che esprime; altrimenti, nel caso di liceità dell'oggetto, l'associazione potrebbe addirittura apparire come una congregazione di brava gente.
Quando poi lo scopo sia di per sé oggettivamente illegittimo ("per commettere delitti o realizzare profitti o vantaggi ingiusti", dice pure la definizione surriportata), per cui l'associazione assume già intrinsecamente carattere delinquenziale, è però ancora la forza dell'intimidazione che tipicizza l'associazione in mafiosa, differenziandola dall'associazione a delinquere di tipo comune e consentendo l'attivazione delle particolari conseguenze previste dalla normativa antimafia.
Di qui dunque la necessità che sulla detta caratteristica dell'intimidazione - talora sfuggente ed impalpabile, ma quanto mai cogente ed efficiente, d'altronde riflessa nella condizione di assoggettamento delle vittime - deve soprattutto polarizzarsi l'attenzione degli organi di polizia per rivelare l'esistenza di un'associazione di tipo mafioso.
Occorre poi rammentare che la "soglia d'ingresso" all'operatività della normativa antimafia è la preventiva esistenza di sufficienti indizi, che dimostrino l'appartenenza del soggetto ad un'associazione di siffatta natura.
La legge invero
(3) non si applica a "chiunque", ma soltanto a chi - secondo la chiara espressione dell'art. 1 - sia "indiziato di appartenere ad associazioni di tipo mafioso"; per cui, se non dovessero preliminarmente sussistere sufficienti indizi di tale appartenenza, non scatta l'operatività del sistema normativo antimafia e non possono conseguentemente essere attivati i poteri e le facoltà in esso previsti.
Che cosa si debba intendere per indizi è problema da risolvere facendo riferimento ovviamente ad un significato tecnico-giuridico del termine: si afferma in giurisprudenza che, mentre le prove dirette danno la certezza, gli indizi danno soltanto la probabilità del fatto che si vuole conoscere; senonché anche gli indizi, qualora derivino da presupposti sicuri, si basino su criteri di normalità causale, siano di significato univoco e convergano tutti nella medesima dimostrazione, possono consentire, in una valutazione complessiva, di raggiungere una rassicurante conoscenza del fatto ed essere quindi posti a fondamento di una tranquillante decisione giudiziaria.
Gli indizi sono cioè prove indirette, prove logiche, prove critiche, prove ricostruttive ed appartengono quindi pur essi al sistema delle prove giuridiche (a differenza dei sospetti, delle supposizioni, delle congetture, che non forniscono invece alcun elemento probante), per cui, quando la legge antimafia richiede la preliminare dimostrazione di sufficienti indizi, circa l'appartenenza del soggetto ad un'associazione di stampo mafioso, per l'attivazione a suo carico delle relative conseguenze, richiede invero che la detta appartenenza sia suffragata da concreti, attendibili e concludenti elementi probatori.
Superata dunque tale "soglia d'ingresso" all'operatività della legge antimafia, scatta allora nella disponibilità del questore e del procuratore della Repubblica tutta una serie di poteri e facoltà in tema di indagini economico - patrimoniali, al fine di poter ricostruire l'effettivo patrimonio del mafioso e metterlo a confronto con le possibilità di accumulo effettivamente consentite dal reddito tratto dal suo lavoro ufficialmente svolto.
Più precisamente - afferma la legge
(4) - il questore ed il procuratore della Repubblica procedono ad indagini sul tenore di vita, sulle disponibilità finanziarie e sul patrimonio posseduto dagli indiziati, nonché sull'attività economica svolta, onde individuare anche le loro fonti di reddito.
Accertano in particolare se le dette persone siano titolari di licenze, di autorizzazioni, di concessioni, di abilitazioni all'esercizio di attività professionali, imprenditoriali o commerciali; se beneficiano di contributi, di finanziamenti, di mutui agevolati, erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee.
Le stesse indagini sono inoltre svolte nei confronti di tutto l'entourage dell'indiziato e cioè del coniuge, dei figli, dei conviventi nell'ultimo quinquennio, nonché delle persone fisiche o giuridiche, imprese, società, enti, consorzi ed associazioni, del cui patrimonio - direttamente o indirettamente, in tutto o in parte - il soggetto risulti poter disporre.
E per fare questo, il questore ed il procuratore della Repubblica possono richiedere ad ogni ufficio della pubblica amministrazione, ad ogni ente creditizio nonché ad imprese, società ed enti di ogni tipo, informazioni e copia della documentazione ritenuta utile ai fini delle indagini.
Come si vede, il legislatore ha voluto un sistema di controlli particolarmente ampio, totalizzante ed allo stesso tempo penetrante e stringente, intorno alla figura del mafioso, perseguendo uno scopo di imbrigliamento complessivo di tutte le sue fonti di reddito e di tutti i suoi averi, anche se posseduti attraverso prestanomi o schermature giuridiche, al fine di verificare alla radice la legittimità della loro provenienza, con effetti d'interdizione di quella parte del patrimonio che dovesse risultare il frutto di attività illecite e comunque superare i limiti di produttività (meglio, di risparmio e di accumulo) inerenti alle sue attività onestamente svolte.
Il legislatore ha infatti esplicitamente previsto che il tribunale ordini il sequestro dei beni del mafioso quando sussistano sufficienti indizi che gli stessi siano il frutto di attività illecite, precisando che la situazione è in tal senso sufficientemente indiziante anche "quando il loro valore risulti sproporzionato al reddito dichiarato o all'attività economica svolta" (5) .
Ed infatti, quest'ultimo parametro, considerato nel contesto del rapporto processuale nel quale si trova il soggetto, già indiziato di appartenere ad un'associazione - quella di stampo mafioso - caratterizzata da una particolare produttività economica, le cui finalità sono chiaramente tipizzate dalla legge nell'acquisizione del controllo di attività imprenditoriali, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti, di servizi pubblici o comunque nella realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti, acquista tutta una sua portanza segnaletica, sufficientemente capace di provare che la sperequazione emergente fra patrimonio posseduto e redditi lecitamente prodotti derivi innanzitutto dall'occultamento di altri redditi guadagnati attraverso tale sua losca appartenenza.
La sproporzione del patrimonio posseduto, rispetto alla pochezza dei redditi evidenziati, trova dunque logica spiegazione nell'attingimento di ulteriori guadagni presso la fonte occulta dell'attività mafiosa, per cui il parametro stesso costituisce invero un normale strumento di prova critica.
D'altra parte, l'applicabilità del ripetuto parametro - della sproporzione fra patrimonio e capacità reddituale - ha indirettamente ottenuto l'assenso della Corte Costituzionale, la quale ha recentemente ritenuto "non in contrasto con i principi costituzionali una norma che, al limitato fine di attivare misure di tipo preventivo, desume dalla qualità di indiziato per taluni reati il sospetto (rectius: la conseguenza) che la sproporzione tra beni posseduti e reddito dichiarato possa esser frutto di illecita attività" (6) .
Onde poter dare concreta operatività al citato parametro, si dovrebbero dunque effettuare pazienti rilevamenti presso l'anagrafe tributaria, la conservatoria dei registri immobiliari, lo schedario nazionale dei titoli azionari, le cancellerie dei tribunali, le camere di commercio, gli archivi notarili, le società fiduciarie, le società finanziarie, le società d'investimento mobiliare, le società di leasing, gli agenti di borsa, il pubblico registro automobilistico, il registro navale, il registro aeronautico ecc. ma, soprattutto, gli istituti di credito pubblici o privati e cioè le banche, atteso che la ricchezza di provenienza illecita attraversa sempre una tipica fase di monetizzazione o comunque di liquidità finanziaria.
Dalla semplice elencazione - peraltro non completa - delle fonti alle quali attingere un'eventuale testimonianza di possibili investimenti mafiosi, si deduce però che non è assolutamente possibile una ricerca sistematicamente estesa alla loro totalità: le società finanziarie - ad esempio - sono circa 22 mila e non è pensabile che si possa inviare una pattuglia presso ciascuna; analogamente, il sistema bancario - contando le casse rurali ed artigianali - risulta composto da oltre 4 mila banche, e non pare fattibile un rilevamento analitico esteso a tutte; e così di seguito, considerando le altri fonti suddette, per concludere quindi che gli accertamenti non possono essere completi e non possono essere neanche estesi ogni volta a tutto il territorio nazionale.
Il segreto per il buon esito, in tempi ragionevoli, delle indagini patrimoniali, risiede allora nello "studio" del soggetto inquisito, nel rilevamento dei suoi spostamenti, degli istituti di credito frequentati, degli uomini d'affari con i quali abbia rapporti, ecc. nel presupposto che, per quanto ampia possa essere l'estensione della sua attività e per quanto avveduta la sua riservatezza, il centro di elezione delle sue decisioni è pur sempre limitato ad una certa zona.
Le forze di polizia devono cioè ritrovare nella propria "funzione investigativa" la chiave per la ricostruzione dei patrimoni illeciti e non limitarsi al semplice compito di notificare ad istituti, società ed enti pubblici o privati le richieste del procuratore della Repubblica o del questore, tanto più che sussistono tuttora ampie possibilità di mimetizzazione per la ricchezza che voglia sottrarsi al confronto con la legittimità della propria origine.
Il legislatore del 1982, infatti, così generoso nella previsione di poteri e facoltà in favore degli organi inquirenti, non è però mancato di cadere in una grossa ingenuità, non accorgendosi che gran parte della ricchezza di provenienza illecita aveva assunto la forma di ricchezza "al portatore", di ricchezza anonima, di ricchezza cifrata, vagante senza un apparente titolare, trasferibile attraverso la semplice "dazione" ed i cui movimenti sarebbero stati difficilmente percepiti dall'esercizio dei detti poteri e facoltà.
In quella montagna di ricchezza, vagante senza nome, confluivano i fondi neri delle società, i ristorni di fatture false, i ricavi non registrati in contabilità, i finanziamenti occulti ai partiti politici, il denaro sporco e quello grigio di mafiosi, tangentisti, corruttori, concussori, malversatori, speculatori, estorsori, ricettatori, usurai, evasori fiscali, ecc. tutti tacitamente alleati nel difendere ad oltranza il segreto bancario e nel patrocinare la circolazione anonima delle risorse finanziarie
D'altra parte, il legislatore del 1991, al quale il problema dell'evidenziazione della ricchezza occulta si pose in termini sicuramente pressanti e preoccupanti, pur emendando un provvedimento enfaticamente intitolato "provvedimenti urgenti per limitare l'uso del contante e dei titoli al portatore e prevenire l'utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio" (7) , non sembra aver approntato invero soluzioni particolarmente decisive.
Com'è noto, con tale provvedimento è stato vietato il trasferimento di denaro contante e di titoli al portatore quando il valore da trasferire fosse superiore a venti milioni di lire, senonché sono attualmente riscontrabili gravi inconvenienti connessi alla circolazione di libretti al portatore emessi anteriormente al provvedimento stesso, nonché alla circolazione di certificati di deposito al portatore, la cui attuale emissione non trova limitazioni di importo.
Da ultimo, dobbiamo rammentare che il legislatore ha anche notevolmente esteso l'operatività del parametro della sproporzione fra patrimonio e capacità reddituale, utilizzandolo in sede di processo penale comune, per l'applicazione di misure di sicurezza patrimoniali a carattere accessorio, nell'intento d'interdire il frutto illecito di tutta una vasta gamma di altri reati, tipicamente consumati dalla criminalità organizzata. Il legislatore ha infatti stabilito che nei confronti di chi sia condannato per taluno dei delitti di associazione mafiosa, estorsione, sequestro di persona, usura ed usura impropria, ricettazione, riciclaggio ed impiego di valori provenienti da reati, trasferimento fraudolento dei beni, produzione e traffico di droga, contrabbando aggravato" è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare od avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito" (8) . Deriva pertanto che anche nel corso dell'istruttoria relativa all'accertamento dei citati reati occorre ricostruire il patrimonio dell'imputato, onde valutarne la congruità rispetto alla sua capacità reddituale ed eventualmente - al fine di prevenire una loro fraudolenta alienazione, sottrazione o dispersione - sottoporre intanto a sequestro cautelativo (art. 321 c.p.p., secondo comma) quei beni che sostanziano la detta sproporzione. Versandosi in tema di processo penale comune, per la ricostruzione del patrimonio non sono in questo caso evidentemente azionabili i poteri e le facoltà previsti dalla normativa concernente il procedimento di prevenzione.